venerdì 12 novembre 2010

Teleperformance, la mobilità e gli 897 lavoratori a rischio

Un'azienda, che si dice vittima del mercato italiano, avvia la procedura di mobilità, mettendo a rischio 847 dipendenti

04/06/2010 - Una email inviata all'indirizzo della nostra redazione racconta l'ultimo grave caso di precariato e posti di lavoro improvvisamente a rischio. A scrivere è uno degli 847 dipendenti di Teleperformance Italia, ramo italiano dell'omonima multinazionale operante nel settore dei servizi in outsourcing, che, come i suoi colleghi, rischia di rimanere senza lavoro tra qualche settimana. Lo scorso 1 aprile, il colosso italiano dei call center per il quale lavorano ha infatti aperto la procedura di mobilità per i suoi dipendenti, assunti prevalentemente con contratti a tempo indeterminato.
La storia di Teleperformance, come nostro malgrado ci stiamo abituando ad ascoltare, è fatta di fastidiosi colpi di scena: l'azienda, fruendo dei fondi per le stabilizzazioni stanziati dalle due Circolari Damiano del 2006, dopo aver assunto a tempo indeterminato centinaia di lavoratrici e lavoratori, ad un certo punto sembra invertire bruscamente la politica interna assumendo unicamente con contratti a tempo determinato e di apprendistato fino a quando, allo scadere degli ultimi finanziamenti, il 31/03/2010, dichiara i circa mille esuberi. Di questi, circa 600 sono previsti per la sede di Taranto, dove Teleperformance rappresenta il secondo motivo d’occupazione dopo l’Ilva, e i restanti circa 250 sono invece previsti nelle due sedi di Roma e Fiumicino.
Motivazione principale, addotta dall’azienda, sarebbe lo stato attuale del mercato italiano che consentirebbe, mancando di regole e controlli adeguati, gli stessi garantiti dalle Circolari Damiano, frequenti casi di dumping - termine usato nella letteratura economica per indicare una situazione dove, come risultato di aiuti pubblici (sussidi), un prodotto è venduto, su un dato mercato e in un tempo preciso, ad un prezzo così basso per cui i produttori locali difficilmente possono competere con esso - da parte di aziende non allineate alle norme sulle stabilizzazioni dei propri dipendenti.
Come sottolinea l'autore della lettera, «in questo settore, quello dei servizi, la mobilità è sinonimo di licenziamento in tronco non essendo previsti ammortizzatori sociali di alcun tipo ed essendo la mobilità priva della possibilità di reintegro».
I primi 45 giorni di trattative tra azienda e sigle sindacali si sono rivelati improduttivi sia per l’effettiva scarsa possibilità da parte dei confederati di proporre alternative concrete alla procedura sia per lo stato di difficoltà in cui l’azienda afferma di versare, avendo anche la pressione della Corporate che minaccia di ritirare il marchio in caso di bilancio nuovamente negativo per l’anno in corso.
Il 14/05/2010 si è conclusa la fase di trattativa sindacati – azienda con un nulla di fatto: i licenziamenti non vengono ritirati.

Per far fronte a una situazione in cui tutto sembra già deciso, al di là delle tempistiche previste dalla legge, i lavoratori delle sedi romane, in data 29/04/2010, si sono costituiti in assemblea permanente, con denominazione CALLTP. Lo scopo che persegue è garantire visibilità continua alla vicenda, appoggiare con molteplici iniziative chiunque si dimostri abile ed interessato a favorire il blocco della procedura di mobilità, creare canali alternativi di trattative tra istituzioni ed azienda e presidiare le sedi scelte per ospitare gli incontri dell’ultima fase, quella amministrativa. Questa, come da prassi, consta in ulteriori 30 giorni di trattative tra azienda, sindacati e istituzioni ed ha come fine ultimo quello di trovare una soluzione valida per tutte le parti coinvolte.
In data 15/06/2010, in caso di mancato accordo, Teleperformance darà il via al licenziamento di circa un terzo della sua forza lavoro italiana, privando cittadine e cittadini, lavoratori e lavoratrici del diritto al lavoro, sancito dalla Costituzione di un Paese che sembra oramai insensibile a tali spettacoli.
Il comparto delle telecomunicazioni è stato uno dei pochi in grado di garantire lavoro in un panorama di crisi generalizzata per tutti i settori di impresa e dopo lo spiraglio aperto dalle Circolari del 2006, il rischio maggiore è quello di un brusco ritorno a forme contrattuali che, come già stabilito, non garantiscono alcun diritto ai dipendenti, né alcuna prospettiva di vita dignitosa. Arrivati a questo punto, ribadiscono i lavoratori, «la speranza e la richiesta di attenzione vanno direttamente alle istituzioni, che per prime dovranno assumersi sia l’onere di colmare un vuoto legislativo che rappresenta il loro compito primario, che in caso di regressione, la responsabilità di un fallimento totale, che graverà sull’intero Paese, essendo quello delle telecomunicazioni il più nuovo e, per quanto possibile florido, dei settori d’impiego».
Allertato dalla gravità della situazione, il Presidente della Commissione Lavoro della Provincia di Roma, Marco Miccoli, ha concertato con i vertici aziendali un tavolo nei locali aziendali che gli consentisse di fissare i punti attorno ai quali far ruotare possibili soluzioni alla crisi.
Il tavolo si è svolto il 27 maggio scorso presso la sede centrale di Teleperformance Italia, in via di Priscilla 101, a Roma. Al termine dell’incontro, Teleperformance e i membri della Commissione si sono detti moderatamente soddisfatti e proiettati entrambi verso la ricerca di una soluzione assolutamente indolore per le parti in causa.
11/06/2010 - I CONTRATTI DI SOLIDARIETA' POSSIBILE ALTERNATIVA AI LICENZIAMENTI - Prosegue la lotta per la difesa del diritto al lavoro da parte dei dipendenti di Teleperformance e dei vertici cittadini interessati al loro destino. Il 25 maggio è stata presentata una mozione di solidarietà al Consiglio della Provincia di Roma; così come successivamente il 7 Giugno in Campidoglio è stata presentata e discussa una mozione sulla vertenza Teleperformance allo scopo di salvare i circa 250 dipendenti della multinazionale a rischio licenziamento nel comune romano. Entrambe le mozioni sono state approvate all’unaminità.
L’incontro del 9 giugno al Ministero del Lavoro tra responsabili del dicastero stesso, vertici aziendali e vertici sindacali, così come previsto dalla prassi della fase amministrativa delle procedure di mobilità, ha portato a un accordo non definitivo nel quale è stata concordata la possibilità di utilizzare i contratti di solidarietà come alternativa ai licenziamenti: per definirne meglio la fattibilità e le modalità d’utilizzo da parte di Teleperformance si sposta la data prevista della chiusura della procedura dal 15/06/2010, nella quale in caso di mancato accordo Teleperformance darà il via al licenziamento di circa un terzo della sua forza lavoro italiana, al 24/06/2010, data nella quale ci sarà un nuovo incontro nel quale si valuterà e definiranno le modalità dell’uso di questo ammortizzatore sociale in deroga.
Pertanto se nel primo caso verrano privati cittadine e cittadini, lavoratori e lavoratrici del diritto al lavoro, sancito dalla Costituzione di un Paese che sembra oramai insensibile a tali spettacoli, nel secondo la situazione si prospetterà leggermente migliore solo nel caso in cui vengano imposte condizioni certe che non svantaggino ulteriormente i lavoratori e le lavoratrici.
Non da ultimo va sottolineato come l’Azienda in primis abbia proposto questa soluzione alternativa in virtù del blocco ai licenziamenti “imposto” da Nichi Vendola: Teleperformance lamentava infatti il mancato pagamento di una parte dei contributi della Regione Puglia previsti e il governatore della Regione ha risposto a tono specificando che in caso di licenziamenti non solo l’Azienda non avrebbe visto l’erogazione dell’ultima tranche dei fondi promessi ma sarebbe stata inoltre richiesta la restituzione dei fondi già erogati in passato.



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Sanità, la riforma di Obama Quello che gli Usa non dicono

Dossier CronacaNet: i retroscena della guerra della sanità, tra fautori e detrattori agguerriti. E morti senza aiuto


New York, 04/10/2009 - Se è un dato che è quasi riduttivo definire impervio il cammino del progetto dell'amministrazione Obama che mira a riformare in maniera considerevole il sistema sanitario negli Usa estendendo a tutta la popolazione il diritto alla copertura sanitaria, è vero anche che per noi cittadini del Vecchio Mondo è altrettanto difficile capire i retroscena di una situazione in grado di mettere a rischio la stessa sopravvivenza del governo attuale. Il primo dato che balza agli occhi evidenzia già la differenza tra il nostro sistema e la sanità d'oltreoceano: negli Stati Uniti circa 45 milioni di cittadini sono privi di copertura sanitaria. Fino a qui, però, analizzando in superficie il semplice fatto che Barack Obama propone di allargare il sistema sanitario, non si può comprendere il perché imponenti frange della società americana osteggino il progetto.
La prima spiegazione va a toccare l'essenza della cultura politica degli americani: negli Usa è diffusa la concezione che la partecipazione dello Stato nel sistema della sanità va evitata, perché esiste il pregiudizio che l'allargamento del sistema implica il decadimento qualitativo delle prestazioni. Motivo per cui chi se lo può permettere usufruisce delle cure fornite dalle cliniche private, mentre chi non può resta senza copertura. Pregiudizi che fanno da sponda alle strategie della destra politica, la quale non perde occasione per fare propaganda anti-Obama e mettere sotto accusa le intenzioni "socialiste" del presidente.
A questi elementi se ne aggiungono altri, più subdolamente mascherati ma altrettanto determinanti: contro la riforma operano potenti gruppi di potere (si contano almeno 42mila lobbisti) del tutto intenzionati a proteggere i propri interessi e a indirizzare il lavoro delle commissioni congressuali che lavorano al progetto di riforma. Così, per fare qualche esempio, accade che industrie farmaceutiche e compagnie di assicurazione lottano per non vedersi strappare dalle mani il quasi monopolio che detengono, gestendo di fatto un sistema che ogni giorno drena 950mila euro. L'industria farmaceutica, per esempio, teme un ribasso del prezzo dei propri prodotti proprio in virtù delle intenzioni del progetto che porta la firma del governo di Obama.
In America, insomma, si respira un'aria da vera e propria guerra della sanità. E i protagonisti di questo scontro non si lasciano scappare nessuna occasione utile per far prevalere la propria causa. In questo contesto, i media diventano preziosi strumenti per veicolare spot pro e contro la riforma. Si calcola che nel solo mese di agosto siano stati spesi 20 milioni di euro in spot televisivi per pubblicizzare il "no" al progetto, ma non sono da meno gli investimenti in denaro realizzati da pensionati e sindacati, che rappresentano le agguerrite frange del "sì".
Intanto, mentre in piazza si alternano manifestazioni di vario colore, la National academy of sciences ufficializza un dato inquietante: ogni giorno avvengono negli Usa 18 mila decessi, vale a dire un morto ogni mezz’ora, da imputare proprio al sistema sanitario; un dato che diventa ancora più shoccante se si pensa che allo stato attuale la Sanità in Usa assorbe ben il 17,5% del pil, pari a 2.500 miliardi l’anno. Eppure c’è chi in tutto questo continua a vederci più che positivo. Dove sta il trucco? E’ semplice: il sistema sanitario attuale, se è vero che lascia 45 milioni di cittadini sognare la mutua, è una manna per i pazienti che rispondano positivamente a requisiti precisi circa il lavoro, l’età, i risparmi. Per usufruire dell’adeguato servizio sanitario, infatti, il trucco sta tutto nel poter pagare. I programmi pubblici coprono i cittadini oltre i 65 anni di età (Medicare), come anche i più poveri, i disabili, i bambini di famiglie disagiate e i soldati per i quali è disponibile il Medicaid. Per chi può permettersi di più ci sono le polizze private, che chiedono da 5mila a 15mila dollari in media e alle quali ci si può rivolgere direttamente o per tramite del proprio datore di lavoro.
In queste condizioni il problema emerge in tutta la sua gravità nel momento in cui un cittadino deve lasciare il lavoro a causa di una grave malattia e, proprio in conseguenza del licenziamento, perde i requisiti per la copertura sanitaria. Se aggiungiamo che a quel punto nessuna compagnia assicurativa accetterà le sue richieste, ci rendiamo conto di quello che succede ogni anno a 18mila persone che potrebbero salvarsi ma vengono lasciate al loro destino.
La riforma voluta dal presidente Barack Obama si propone di estendere la copertura ai 45 milioni di americani attualmente estranei al sistema, oltre a imporre regole che impediscano alle polizze di poter rifiutare le richieste delle persone che non hanno i requisiti richiesti. Il progetto richiede una spesa di 900 miliardi di dollari in 10 anni, che, a detta di Obama, saranno ricavati tagliando gli sprechi. Ed è qui che i repubblicani trovano l’arma per colpire il presidente, accusato di aver abbandonato l’idea di un’assicurazione sanitaria pubblica pur di raggiungere un valido compromesso.
Ad ogni modo, se non è possibile prevedere i risvolti di questa contesa, è quantomeno auspicabile che le richieste di 45 milioni di americani non vengano ignorate. Perché sarebbe da ipocriti piangere i caduti oltreconfine e non avere sulla coscienza l’inascoltata richiesta d’aiuto del vicino di casa abbandonato a se stesso.

Foto tratte da Corriere.it

Fini e Berlusconi, la rottura: "Un vero partito nel partito"

31/07/2010 - Un terremoto politico ha colpito ieri la coalizione del Popolo della Libertà, lasciando una frattura irreparabile. A subirne le conseguenze, l'ex leader di An Gianfranco Fini, che giovedì scorso è stato di fatto "sfiduciato" nel suo ruolo di numero uno di Montecitorio dall'ufficio di presidenza del Pdl. Una "scomunica" espressa dal presidente Silvio Berlusconi attraverso l'invito ad abbandonare la carica di presidente della Camera, un messaggio nel quale Fini non ha mancato di sottolineare, davanti ai giornalisti convocati all'Hotel Minerva di Roma, una «concezione non proprio liberale della democrazia», in quanto «dimostra una logica aziendale, modello amministratore delegato-consiglio d'amministrazione, che di certo non ha nulla a che vedere con le nostre istituzioni».
Nel giro di cinque minuti, il cofondatore del Popolo della Libertà si è trovato a fare i conti con quella che lui stesso non ha mancato di definire «una brutta pagina per il centrodestra e più in generale per la politica italiana». «In due ore, senza la possibilità di esprimere le mie ragioni, sono stato di fatto espulso dal partito che ho contribuito a fondare», ha commentato Fini in risposta alla "scomunica" ricevuta. Ma il leader di Montecitorio ha anche precisato che non darà le dimissioni, «perché il presidente della Camera deve garantire il parlamento e non la maggioranza che lo ha eletto». Nelle sue parole, poi, rassicurazioni sulla ferma intenzione di preservare ancora «i valori autenticamente liberali e riformisti del Pdl». Neanche sulla battaglia per la legalità il presidente della Camera si dice intenzionato a fare passi indietro: «È un impegno che avverto - ha spiegato - per onorare il patto con i nostri milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell’ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità». «Ringrazio - ha aggiunto Fini - i tantissimi cittadini che in queste ore mi hanno manifestato solidarietà e mi hanno invitato a continuare nel nome di principi come l’amor di patria, l’unità nazionale, la giustizia sociale, la legalità intesa nel senso più pieno del termine: cioè lotta al crimine come meritoriamente sta facendo il governo. Ma anche etica pubblica, senso dello Stato, rispetto delle regole».
LO SFOGO DEL PREMIER E LA DECISIONE FINALE - «Viene meno la fiducia nel ruolo di garanzia del presidente della Camera. Non è mai successo che la terza carica dello Stato assumesse un ruolo politico» facendo «una vera e propria opposizione, critiche in sintonia con la sinistra e con una struttura organizzativa sul territorio. Abbiamo tutti ritenuto che il Pdl non potesse pagare il prezzo troppo alto di mostrarsi un partito diviso». Con queste parole, espresse nella conferenza stampa seguita all'ufficio di presidenza del Pdl, il premier Berlusconi ha spiegato le ragioni che lo hanno spinto a prendere la decisione di applicare una censura politica nei confronti del cofondatore del Pdl e dei suoi seguaci. Il premier ha ribadito che «si è presentato un dissenso da parte di Fini e degli uomini a lui vicini nei confronti del governo, della maggioranza e del presidente del Consiglio. Io non ho mai risposto, anzi ho sempre smentito i virgolettati che mi hanno attribuito. «Abbiamo provato in tutti i modi a ricucire con Fini - ha proseguito il presidente del Consiglio - ma non è stato possibile. Non sono più disposto ad accettare il dissenso, un vero partito nel partito».
E I FINIANI PREPARANO IL GRUPPO AUTONOMO - Si chiama «Futuro e Libertà per l’Italia» il nuovo gruppo, già formalizzato presso gli uffici della Camera, cui sono state consegnate 33 richieste di adesione da parte dei "fedelissimi" di Fini. Il nome del gruppo si sostituisce a quello, ipotizzato inizialmente, di «Azione nazionale», che avrebbe rispolverato il vecchio acronimo di An, e anche al nome «Nazione e libertà».
Intanto a Palazzo Madama è stata raggiunta la soglia dei 10 senatori necessaria per costituire un gruppo autonomo. D'altra parte, Fini si sta già trovando alle prese con il rifiuto di seguire la linea da lui intrapresa espresso da compagni di non poco conto. Come il sindaco di Roma, l'ex An Gianni Alemanno, che ha sottolineato la volontà di rimanere «schierato dalla parte di Berlusconi con chiarezza. Mi dispiace profondamente per quello che è accaduto - ha detto Alemanno - però sto nel Pdl con convinzione».

Link consigliati: Corriere.it - La "rottura": il documento dell'ufficcio di presidenza del Pdl

Foto tratte da Corriere.it

Intercettazioni, sì del Senato, Pd non vota, Idv: referendum

giovedì 11 novembre 2010

Prova 11

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Prova titolo articolo CronacaNet

31/07/2010 - Un terremoto politico ha colpito ieri la coalizione del Popolo della Libertà, lasciando una frattura irreparabile. A subirne le conseguenze, l'ex leader di An Gianfranco Fini, che giovedì scorso è stato di fatto "sfiduciato" nel suo ruolo di numero uno di Montecitorio dall'ufficio di presidenza del Pdl. Una "scomunica" espressa dal presidente Silvio Berlusconi attraverso l'invito ad abbandonare la carica di presidente della Camera, un messaggio nel quale Fini non ha mancato di sottolineare, davanti ai giornalisti convocati all'Hotel Minerva di Roma, una «concezione non proprio liberale della democrazia», in quanto «dimostra una logica aziendale, modello amministratore delegato-consiglio d'amministrazione, che di certo non ha nulla a che vedere con le nostre istituzioni».
Nel giro di cinque minuti, il cofondatore del Popolo della Libertà si è trovato a fare i conti con quella che lui stesso non ha mancato di definire «una brutta pagina per il centrodestra e più in generale per la politica italiana». «In due ore, senza la possibilità di esprimere le mie ragioni, sono stato di fatto espulso dal partito che ho contribuito a fondare», ha commentato Fini in risposta alla "scomunica" ricevuta. Ma il leader di Montecitorio ha anche precisato che non darà le dimissioni, «perché il presidente della Camera deve garantire il parlamento e non la maggioranza che lo ha eletto». Nelle sue parole, poi, rassicurazioni sulla ferma intenzione di preservare ancora «i valori autenticamente liberali e riformisti del Pdl». Neanche sulla battaglia per la legalità il presidente della Camera si dice intenzionato a fare passi indietro: «È un impegno che avverto - ha spiegato - per onorare il patto con i nostri milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell’ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità». «Ringrazio - ha aggiunto Fini - i tantissimi cittadini che in queste ore mi hanno manifestato solidarietà e mi hanno invitato a continuare nel nome di principi come l’amor di patria, l’unità nazionale, la giustizia sociale, la legalità intesa nel senso più pieno del termine: cioè lotta al crimine come meritoriamente sta facendo il governo. Ma anche etica pubblica, senso dello Stato, rispetto delle regole».
LO SFOGO DEL PREMIER E LA DECISIONE FINALE - «Viene meno la fiducia nel ruolo di garanzia del presidente della Camera. Non è mai successo che la terza carica dello Stato assumesse un ruolo politico» facendo «una vera e propria opposizione, critiche in sintonia con la sinistra e con una struttura organizzativa sul territorio. Abbiamo tutti ritenuto che il Pdl non potesse pagare il prezzo troppo alto di mostrarsi un partito diviso». Con queste parole, espresse nella conferenza stampa seguita all'ufficio di presidenza del Pdl, il premier Berlusconi ha spiegato le ragioni che lo hanno spinto a prendere la decisione di applicare una censura politica nei confronti del cofondatore del Pdl e dei suoi seguaci. Il premier ha ribadito che «si è presentato un dissenso da parte di Fini e degli uomini a lui vicini nei confronti del governo, della maggioranza e del presidente del Consiglio. Io non ho mai risposto, anzi ho sempre smentito i virgolettati che mi hanno attribuito. «Abbiamo provato in tutti i modi a ricucire con Fini - ha proseguito il presidente del Consiglio - ma non è stato possibile. Non sono più disposto ad accettare il dissenso, un vero partito nel partito».
E I FINIANI PREPARANO IL GRUPPO AUTONOMO - Si chiama «Futuro e Libertà per l’Italia» il nuovo gruppo, già formalizzato presso gli uffici della Camera, cui sono state consegnate 33 richieste di adesione da parte dei "fedelissimi" di Fini. Il nome del gruppo si sostituisce a quello, ipotizzato inizialmente, di «Azione nazionale», che avrebbe rispolverato il vecchio acronimo di An, e anche al nome «Nazione e libertà».
Intanto a Palazzo Madama è stata raggiunta la soglia dei 10 senatori necessaria per costituire un gruppo autonomo. D'altra parte, Fini si sta già trovando alle prese con il rifiuto di seguire la linea da lui intrapresa espresso da compagni di non poco conto. Come il sindaco di Roma, l'ex An Gianni Alemanno, che ha sottolineato la volontà di rimanere «schierato dalla parte di Berlusconi con chiarezza. Mi dispiace profondamente per quello che è accaduto - ha detto Alemanno - però sto nel Pdl con convinzione».

Link consigliati: Corriere.it - La "rottura": il documento dell'ufficcio di presidenza del Pdl

Foto tratte da Corriere.it

 
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